lunedì 31 dicembre 2007

LA QUESTIONE DEI PROFESSORI A CONTRATTO

Lettera dei docenti a contratto di Storia alla SISSCO

(Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea)

Nel panorama dell’università italiana prevalgono le ombre sulle luci. Non si tratta solo dell’età media di ricercatori e docenti, della continua immissione nel sistema universitario di dottorandi che non avranno mai una possibilità di trovare un impiego.

Non si tratta solo di parlare della proliferazione anarchica di corsi di laurea e di sedi universitarie, delle lauree regalate solo per farsi pubblicità a personaggi come Valentino Rossi. Si tratta di capire come sia stato possibile arrivare a questa generale perdita di qualità e di attenzione all’istruzione universitaria. 

Emblematica della degradazione del sistema universitario è la proliferazione della figura dei professori a contratto. L’istituto era stato creato con il Decreto n.242 del 1998 perché l’università potesse avvalersi di “studiosi ed esperti di comprovata qualificazione professionale”. L’idea era buona: riavvicinare l’università anche al mondo del lavoro e all’accademia straniera, inserendo in ogni corso di laurea uno o due docenti esterni, con specifiche competenze non facilmente reperibili tra chi si dedica strutturalmente all'accademia, e ovviamente retribuiti adeguatamente. Ne sarebbe forse derivato un ammodernamento dell’insegnamento, e un incremento di prestigio per l’università.

A forza di montarla, oggi però la crema è impazzita. Secondo le stime del MIUR la docenza a contratto incide ormai per il 30-40 per cento sui corsi di laurea, arrivando a comprendere un esercito di 48mila contrattisti. Questo a fronte di un totale fra ricercatori, associati e ordinari (gli strutturati) di 61.973 unità.

I professori a contratto svolgono, in sostanza, le stesse mansioni degli strutturati: insegnamento frontale, ricevimento degli studenti, esami, seminari, e questo per materie fondamentali e spesso obbligatorie anche nei primi anni di corso.  Vengono formalmente valutati dagli studenti per il loro lavoro, percependo per questa attività compensi compresi fra gli 0 (è successo anche questo, ma la media è 400 euro) e un massimo 3000 euro lordi per un corso di 5 crediti o 5000 per uno di 10, che li impegna per tutto l'anno in almeno 4 sessioni di esami. Inoltre non sono previste né maggiorazioni, né alcuna detrazione di imposta per gli spostamenti spesso fra una regione e un’altra, non hanno diritto alla mensa e quasi mai hanno un ufficio cui appoggiarsi, quindi devono pagare in proprio ogni spesa per la preparazione dei corsi: fotocopie, stampe, telefonate. Essi inoltre non hanno diritto a fondi di ricerca, anche se spesso sono nella fase della propria carriera accademica in cui ve ne sarebbe più bisogno. Le voci nel bilancio universitario riguardanti il 2005 riflettono bene questa situazione. Infatti nel 2005 le spese per il personale docente “a tempo indeterminato” sono state pari a 3.364.305.000 euro, mentre quelle per il personale docente “a tempo determinato” sono state di 165.340.000. In altre parole: a fronte del fatto che i docenti a contratto sono in numero pari all'80 per cento dei docenti strutturati, la spesa nei loro confronti è pari a circa il 4 per cento di quella prevista per i colleghi strutturati.

E’ nostra convinzione che un’università di qualità non possa basarsi solo sull'entusiasmo e la passione intellettuale di giovani, e meno giovani, ricercatori e professionisti sottopagati e totalmente subalterni. Se in alcune università, non solo a Bari ma anche nel Nord, la scandalosa rapacità di alcuni professori ha portato a vendere i voti degli esami, come non si può correre lo stesso rischio pagando una miseria personale precario? Ad importanti responsabilità devono corrispondere compensi adeguati, e se queste responsabilità vengono ritenute troppo impegnative per affidarle alla scarsa esperienza di giovani e professionisti, non bisogna affidarle all'esterno solo per far risparmiare soldi alle università e lavoro ai docenti strutturati.

A noi non sembra che il tema all’ordine del giorno sia, e neanche che dovrebbe essere, quello di una “stabilizzazione” generalizzata di chi ha un contratto, anche se è vero che nei prossimi 10 anni è prevista la cessazione di attività di circa 30mila professori. Certo è che il flusso dei dottorandi va regolato, che il ritmo di assunzione deve aumentare, tenendo conto in primo luogo della qualità dei nuovi assunti e secondo norme che guardino in primo luogo a questa qualità. Nel frattempo però si pone il problema di sfoltire il numero dei contrattisti e allo stesso tempo retribuire a livelli decorosi coloro che hanno requisiti sufficienti, visto che non esiste alcun impiego in cui per svolgere la stessa mansione di un suo collega un lavoratore venga pagato 50 volte meno. Ciò non è accettabile nelle fabbriche, non è accettato nel settore dei servizi, non è accettabile nei ministeri, né dovrebbe essere accettato per l’insegnamento universitario, che è un lavoro come un altro. 

L’invito alla Sissco è dunque quello di far pressioni sui Presidi di Facoltà perché razionalizzino l’uso dei contrattisti nelle discipline storiche e, nel caso si vogliano avvalere delle loro competenze, perché si adoprino per allineare il salario, e anche le materiali condizioni di lavoro, a livelli compatibili con l’eguaglianza e dignità del lavoro: richiesta riportata in numerosi articoli della nostra Costituzione. Siamo convinti che di questo non potrebbero che beneficiare sia gli studenti che l'intero sistema universitario finora teso solo alla sua espansione a discapito della qualità; al risparmio piuttosto che alla motivazione degli elementi che lo compongono, che incentiva una crescente soggezione da parte dei giovani ricercatori nei confronti dei professori dai quali dipende la loro carriera.

Non si può aspettare che la pentola di questa massa di personale senza diritti e senza salario esploda in maniera imprevedibile.