martedì 3 febbraio 2009

DOCENZA A CONTRATTO: LO STATO DELL’ARTE

Incontro sul precariato universitario, FLC-CGIL, Roma, 3 febbraio 2009

L’ INVENZIONE DELLA DOCENZA A CONTRATTO E LA SUA INFELICE APPLICAZIONE

L’anomala figura del professore in appalto è delineata dal Regolamento recante norme per la disciplina dei docenti a contratto (DPR 242/1998) firmato dall’allora ministro Berlinguer. Il docente esterno, a dire il vero, esisteva già (DPR 382/1980, art. 25), ma in forme meno invasive; il regolamento del ‘98 ne amplifica le potenzialità.

Al fine di «sopperire a particolari e motivate esigenze» determinate dalla appena avviatasi moltiplicazione dei corsi di laurea, Berlinguer prevede che le Università possano stipulare contratti di diritto privato con «studiosi o esperti di comprovata qualificazione professionale o scientifica» (art. 1, c. 3) da individuare tramite bando e «procedura di selezione» con valutazione di titoli scientifici e professionali: l’aspirante docente free-lance si impegna dunque in un vero e proprio concorso. I contratti, si legge all’art. 2, comma 3, «hanno durata annuale» (ma, per una malintesa sovrapposizione tra anno solare e anno accademico, molti sfiorano in realtà i venti mesi), non hanno garanzia di rinnovo, e comunque «non sono rinnovabili per più di sei anni»: il settimo anno si salta un giro!

Il professore a contratto assume le stesse mansioni didattiche di un professore strutturato (oltre alle lezioni, sono di sua competenza gli esami, i ricevimenti, il tutoraggio etc.); gli è garantita la libertà di insegnamento, da esercitarsi comunque «nell’ambito della disciplina assegnata e tenuto conto della programmazione didattica e degli obiettivi formativi deliberati dalle strutture didattiche» (Statuto dell’Università degli Studi di Firenze, 2008, art. 2, c. 1b). Tuttavia, pur accollandosi in toto le responsabilità didattiche di un qualsiasi docente strutturato, il docente esterno non partecipa alla vita democratica dell’istituzione, neanche in forma di rappresentanza (è importante sottolineare che in Consiglio di Facoltà, sede deputata alla programmazione didattica, gli studenti hanno i loro rappresentanti mentre i docenti a contratto non vi hanno accesso in nessuna forma). Berlinguer, a onor del vero, non nega la partecipazione dei contrattisti agli organi collegiali, se non, come è ragionevole, per le deliberazioni «relative ai posti di ruolo e alla stipula dei contratti d’insegnamento» (art. 2, c. 2), ma gli atenei italiani applicano con eccessivo zelo il comma e, a nostra conoscenza, in Italia la categoria è esclusa da tutte le assise accademiche (con l’eccezione dei Consigli di Corso di Laurea, dove comunque non esercita parere deliberativo). È evidente che la restrizione può andare a detrimento della qualità della didattica, almeno nell’ottica del coordinamento collegiale.

Berlinguer conferma alcune misure già previste dal DPR 382/1980; in particolare merita sottolineare che, in sostanza, mantiene il diktat del citato decreto dove si dichiarava che «i contratti [di docenza] non danno luogo a trattamento assistenziale e previdenziale» (art. 25). Per quanto riguarda le retribuzioni, infine, il capitolo non ha esito più felice: il ministro, non volendo indagare temi tanto volgari, si limita a sancire che i contratti sono stipulati «nei limiti degli appositi stanziamenti di bilancio» (art. 1, c. 1). Nella pratica corrente il contrattista non conosce in anticipo l’entità della retribuzione perché, data l’indefinitezza di tali disponibilità di bilancio, nella quasi totalità dei casi i contratti vengono confezionati e firmati a lezioni già avvenute.

Il pagamento, di prassi, è calcolato a ore di lezione, e nel caso fiorentino (facoltà di Architettura) assurge al valore di 3 euro l’ora, per un totale annuo che si aggira sui due-trecento euro. Ma la realtà supera generosamente l’immaginazione: in molti CdL si stipulano da anni solo contratti a titolo gratuito. Questo è però un merito ascrivibile pienamente all’illuminata legge Moratti... Nella L. 230/2005, art. 1, comma 10, si legge infatti che le università «possono conferire incarichi di insegnamento gratuiti o retribuiti»: la gratuità del lavoro viene sancita per legge, in barba allo spirito della Costituzione che predica essere l’Italia una Repubblica fondata sul lavoro, non sulla rendita o sul privilegio. La legge Moratti procede in direzione del ripristino dell’odiosa consuetudine della messa a frutto della rendita di posizione. Il nostro lavoro deve, a maggior ragione, essere pagato equamente, anche in nome della Costituzione e della Democrazia!

LAVORATORE AUTONOMO O SUBORDINATO?

Date le premesse, è avvertibile che il docente a contratto, a dispetto della teoria che lo vorrebbe libero professionista, o lavoratore autonomo, svolge in pratica mansioni da lavoratore subordinato. I contratti di docenza si palesano come un abuso: sottintendono vincoli di orario, obblighi di svolgimento del lavoro presso la struttura, ambiti didattici da rispettare etc. Ci sono cioè tutti i parametri che qualificano il rapporto di lavoro come rapporto di subordinazione. Questo è un punto sul quale è necessario soffermarsi.

La legge Moratti configura, infatti, un mai inveratosi lavoratore a tempo determinato che svolge attività di didattica (L. 230/2005, art. 1, c. 14): in tale comma, sono previsti rapporti di lavoro subordinato per lo svolgimento di «attività di ricerca e didattica integrativa», da stipularsi tramite «contratti di diritto privato a tempo determinato». A partire dal 2005, perciò, si attua un regime di coesistenza tra un professore autonomo ex-lege Berlinguer e un professore a tempo determinato.

Se si interpretano le volontà inespresse di Berlinguer, il docente a contratto avrebbe dovuto essere un professionista, e non un assegnista di ricerca o un precario di lungo periodo come si è poi venuto affermando. La Moratti, registrato che le facoltà si comportavano altrimenti e arruolavano i propri ricercatori precari nei ranghi dei docenti in appalto, forse proprio a tutela dei numerosi precari inserisce la didattica nel famigerato comma 14, senza però disapplicare né citare espressamente il docente modello Berlinguer (se non nel già citato e vago comma 10): da qui l’ambiguità. Il costume non ha poi accolto il professore a tempo determinato, e il motivo è evidente: dei due tipi docenti che si sarebbero manifestati, uno – il subordinato – con tutele e diritti, aveva un costo elevato per gli atenei, mentre l’altro – l’autonomo – più economico e più agile, si era già dimostrato di massima efficacia: va da sé che il modello Berlinguer ha continuato ad imperare, malgrado le (forse) buone intenzioni della meneghina.

Il riconoscimento al docente a contratto dello status di lavoratore subordinato, oltre a poterne prefigurare il reintegro a tempo indeterminato avendo il contrattista già superato anche la valutazione comparativa, gli aprirebbe in ogni caso una via se non all’assunzione perlomeno alla sopravvivenza dignitosa: lo prevede la 180/2008, nell’art. 1, c. 3, che ripartisce le spese da destinare al turn-over (limitato, come è noto, al 50% negli atenei virtuosi): «una quota non inferiore al 60% [è destinata] all’assunzione di ricercatori a tempo determinato, nonché di contrattisti ai sensi dell’articolo 1, comma 14» della L. 230, cioè di lavoratori a tempo determinato della ricerca e della docenza.

LA DOCENZA PROVVISORIA IN CIFRE

Il fenomeno ha assunto dimensioni impressionanti negli atenei italiani. Nonostante la reticenza che i singoli atenei hanno nel diffondere i dati relativi al precariato in ogni sua forma, i numeri sono ingenti: secondo l’ultimo rilevamento MIUR, risalente al 2007, su un organico di 61929 docenti (ordinari e associati) e di ricercatori (peraltro non obbligati per contratto a svolgere mansioni di docenza), i docenti a contratto risulterebbero essere 42154, in un rapporto cioè di 10 a 7, probabilmente sottostimato perchè le docenze, come detto, hanno in effetti durata di un anno accademico e non solare (cioè, l’impegno contrattuale si prolunga per molti mesi dopo la fine delle lezioni).

Quando il ministro Mussi, preso atto del dilagare del precariato docente, a cui avrebbe voluto dimostrare la propria solidarietà, pone per decreto il tetto del 50% agli insegnamenti affidati a contratto in ciascun corso di laurea, i corsi riducono automaticamente l’offerta formativa, espellendo di conseguenza un buon numero di docenti esterni che da anni vi si erano impegnati, e «la misura contro il precariato si trasforma in misura contro i precari» (Docenti precari. Al via la rottamazione, 2007, www.ricercatoriprecari.org). La riduzione o il contenimento del numero degli insegnamenti in appalto risulta tuttavia di dubbia fattibilità nel panorama post-Gelmini: i pensionamenti in massa, la limitazione del turn-over (laddove esso persista) e il taglio dei fondi fanno ipotizzare un luminoso futuro per la didattica esterna; d’altra parte la docenza a contratto non è certo nata per fare un favore ai contrattisti!

Nel caso specifico, l’ateneo fiorentino, “non virtuoso” secondo i parametri della  180/2008, si prefigge comportamenti parsimoniosi quando ormai i buoi sono scappati: innanzitutto riduce al 30% l’entità delle docenze affidate in appalto (ma è dubbio che potrà riuscirci, ve ne è sempre più bisogno); in secondo luogo, con manovra draconiana e lungimirante, i contratti di docenza saranno per i prossimi anni esclusivamente a titolo gratuito (dunque, almeno tre lavoratori su dieci non saranno pagati...), con un risparmio miserevole di fronte ad un impegno di grande mole. In questo clima di tagli, tuttavia, i professori “cessati con incentivazione” che firmano un contratto di docenza continueranno a ricevere i loro 30.000 euro annui di incentivo (cfr. prot. 43303/ 2008, circ. 2/2008), oltre alla pensione che è loro dovuta, per un lavoro che i contrattisti esterni svolgono a titolo gratuito. A questo punto, è lecito domandarsi se esiste un qualsiasi altro ente statale in cui a parità di mansioni le retribuzioni assumano una tale disparità.

«PROFESSIONISTI IN CERCA DI PRESTIGIO»: DOCENTI ANOMALI TRA “STRUTTURATI” E STUDENTI

Difficile descrivere la percezione che l’accademia ha dei docenti esterni. Considerati il più delle volte «professionisti in cerca di prestigio» (sono parole del preside di Economia di Firenze, “La Nazione”, 22 gennaio 2009), i docenti a contratto soffrono, loro malgrado, della definizione legislativa: quei «professionisti» che, secondo il regolamento del 1998, avrebbero dovuto rimpolpare i ranghi dei docenti nei proliferanti CdL, altro non sono, nella grande maggioranza dei casi, che ricercatori precari di lungo corso in attesa dell’accesso ai ruoli. Dati gli introiti, tutti i professori a contratto sono obbligati ad affiancare al loro impegno didattico almeno un altro lavoro, più spesso di ricerca precaria, ma anche di libera professione. Così è frequente che i colleghi non riconoscano a questi «professionisti» la vocazione accademica: anzi, gli stessi colleghi strutturati non comprendono l’ostinazione con cui i contrattisti accettano condizioni di lavoro – a dire dei più anziani – “inaccettabili e vergognose”, e sovente ne interpretano l’impegno con un sottile velo di sospetto (quella rendita di posizione di cui si è detto...). D’altra parte, come è noto, non pochi dei professori strutturati (non tutti!) svolgono attività professionale, spesso senza rinunciare alla formula stipendiale full-time, e trattano il limite pubblico-privato con stupefacente arbitrarietà (ad esempio, in caso di concorso, ripagando con un posto pubblico il garzone di studio).

Agli occhi degli studenti, ignari dei meccanismi accademici, il docente a contratto, per quanto possa manifestare loro il disagio della propria situazione lavorativa, non si differenzia invece in alcun modo dallo strutturato e gli è perciò riservato ugual rispetto in cambio, tuttavia, di un ugual impegno.

Nel desiderio condiviso con tutte le fasce dei lavoratori dell’Università di eliminare definitivamente il precariato strutturale e di vedere ridursi ad eccezione la figura del docente autonomo, i docenti a contratto richiedono le forme di rappresentanza con voto deliberativo, le tutele previdenziali e assistenziali, e le retribuzioni eque che deriverebbero dal riconoscimento del loro status di lavoratori subordinati della ricerca e della docenza, che in un’università di sana e robusta costituzione continueranno ad essere sempre strettamente interrelate.

ILARIA AGOSTINI, 

architetto, dottore di ricerca, è docente a contratto e assegnista di ricerca: in cinque anni ha firmato tredici contratti di docenza con due atenei (Firenze e Perugia), in quattro corsi di laurea e in un master. Ha insegnato a Ginevra (Institut d’Architecture), con modalità diverse dal contratto di docenza. Attualmente insegna Analisi del territorio e degli insediamenti alla Facoltà di Architettura di Firenze, Storia del paesaggio agrario nel Master in Paesaggistica dell’Università di Firenze e Storia del paesaggio alla Facoltà di Agraria di Perugia. Fa parte del Coordinamento dei Docenti Precari dell’Università di Firenze (docentiprecariunifi@libero.it). Ha pubblicato articoli sulla docenza a contratto su il manifesto, liberacittadinanza.it e comunitaprovvisoria.it